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Primavera Sound 2023. Guida ai nomi che (forse) vi siete persi

#09Marzo  #Articoli 

Contenuto originale di SENTIREASCOLTARE
Il cartél del Primavera Sound è uscito a Dicembre, ma forse non vi siete ancora accorti di qualche nome. Come da tradizione, SA dispensa consigli amorevoli e chicche per coloro che parteciperanno al festival – quest’anno in ben due edizioni “specchiate”, Barcellona (as usual) e Madrid.
L’edizione ventura è all’insegna delle commistioni e dei contrasti, forse come non mai nella sua storia ventennale: il rap di Kendrick Lamar e Baby Keem, la vecchia guardia del synthpop e della new wave rappresentata da Depeche Mode e Pet Shop Boys, il ritorno dei Blur, il versante elettronico coperto in ogni sua sfumatura – da Calvin Harris, Skrillex e Fred Again.. a Four Tet e i Darkside; il pop di Caroline Polachek e il j-pop di Kyiari Pyamu Pyamu; il rock mainstream dei Måneskin e quello più sofisticato di St. Vincent e dei War On Drugs; e poi, le generazioni del punk a confronto: Bad Religion, Le Tigre, Turnstile. Nella goduriosa cornucopia di eventi e input sonori, qualcosa resta in secondo piano: noi siamo qua per portarlo un po’ più alla luce.
Insomma: nomi “strani”, piccoli o piccolissimi, che aspettano di essere (ri)scoperti. Partiamo.
1 giugno
Già per la clamorosa proposta della ciutat ci sarebbe da scrivere un articolo a parte – tante tante cose di spessore, soprattutto nell’indie, dai math-rockers Palm si attraversa tutto lo sperimentale (Just Mustard, per gli amanti del noise e dello shoegaze; i “nostri” Calibro 35; Enumclaw, post-punk retrò e affascinante; i canadesi Crack Cloud, presenti anche nei tre giorni a Madrid), fino al ritorno di Black Country, New Road e Black Midi, la nobiltà della scena UK contemporanea.
Per il giovedì segnaliamo Joe Unknown, giovane producer britannico che mescola il rap con basi da club, pur lasciando intravedere una certa attitudine punk (Ride, uno dei suoi brani più noti, ha campionato come base l’iconico giro di basso di Neat Neat Neat). Ha un che degli Sleaford Mods, ha carattere, ha stile.
Il giovedì è anche il giorno più heavy-oriented, in tutte le salse: quella più spettrale e scenica degli svedesi Ghost, quella più monolitica e minacciosa dei giapponesi Boris, oppure quella più peciosa e impattante dei belgi Amenra: una tripletta che i fanatici del metallo non si lasceranno scappare.
Se poi volete riprendervi da cotanta furia e riposare le orecchie (ps: portate dei tappi protettivi, fanno sempre comodo!), potete lasciarvi ipnotizzare dalla synthedelia degli Emeralds da Cleveland, Ohio. Finalmente riformati dopo aver dato vita ai progetti solisti dei suoi membri (Steve Hauschild e John Elliott aka Imaginary Softwoods in prima linea, sempre all’insegna di un’ambient cosmica), e aver condiviso il palco con i più fini sperimentatori dell’elettronica (Throbbing Gristle, Oneohtrix Point Never), i tre smeraldi hanno rotto un silenzio durato quasi dieci anni, con la ristampa di quel trip sonoro chiamato Solar Bridge, curata da Ghostly. Armati di synth vecchia maniera, arrivano al festival con grande piacere degli appassionati di ambient, drone e musica d’improvvisazione.
Maral è un altro nome da tenere sott’occhio, se siete amanti delle tre categorie di cui sopra, sebbene l’ultimo lavoro della producer di stanza a Los Angeles, Ground Groove, sia molto più centrato su un ritmo (da qui il titolo) basato su field recordings della terra natia (Iran), batterie e voci campionate; lo storico dei suoi lavori (specie per i remix) con Animal Collective, Black Dice, Automatic e altri è essenziale per comprenderne l’indole psichedelica e fortemente esplorativa; grande curiosità per il suo set.
Gli agenti del caos Machine Girl, duo da Long Island, sono uno dei veri pezzi forti della lineup: dagli esordi post-vaporwave, in cui mescolavano drum’n’bass e estetica da manga (Wlfgr), fino all’hardcore digitale e violento che flirta con l’harsh noise degli ultimi album (The Ugly Art, U-Void Synthesizer), il progetto ha formato attorno a sé un’aura di culto assoluto, suggellata dall’esplosiva performance durante la prima edizione del Primavera Sound di Los Angeles – una sorta di test match che li ha portati fino a Barcellona e Madrid.
2 giugno
Il secondo giorno è simbolico nei termini di quel clash generazionale di cui scrivevamo sopra: l’hardcore (o post-) è ben rappresentato da varie iterazioni: i Soul Glo (rivelazione con il loro Diaspora Problems dello scorso anno, uscito su Epitaph), evidenti debitori dei Bad Brains e di un’attitudine crossover anni ’90; e i leggendari Unwound, che i ’90 li hanno vissuti e formati, al loro ritorno sui palchi dopo più di vent’anni di silenzio. Questi ultimi sarebbero già di per sè un ottimo motivo per andare al festival, anche a prova di scettici delle reunion (guardate qualche video dei loro concerti e vi ricrederete): una band che ha sparso briciole di saggezza e frammenti d’ispirazione pura per tutto il corso della loro attività, andando poi a formare la generazione successiva di punk rockers evoluti.
Spieghiamola così: se i Sonic Youth sono degli “alti” sacerdoti della musica sperimentale che vanno a sporcarsi le mani nello stagno del punk rock, gli Unwound fanno l’opposto: dal DIY e dalla povertà di mezzi riescono a creare musica dall’alto valore catartico e sperimentale.
C’è poi la band “gemella” degli Unwound, i Karate – le due formazioni sono in tour per conto di Numero Group, splendida label di Chicago che da anni porta avanti un fondamentale lavoro di riscoperta e ristampa di cataloghi creduti persi, ricollegando i puntini della cronistoria dell’underground americano (e non solo) degli ultimi trent’anni. I Karate di Geoff Farina, appunto: splendido esempio di come il post-hardcore sia una materia informe, in cui possano dialogare amabilmente il jazz, il blues, lo slowcore, e molto, molto altro ancora.
The Soft Pink Truth è un altro nome che suscita interesse – nome d’arte dietro al quale si cela infatti Drew Daniel, professore di Inglese all’Università Johns Hopkins di Baltimora, ma ben più noto per essere uno dei due Matmos, progetto multiforme avviato verso la metà degli anni ’90 col compagno Martin Schmidt. The Soft Pink Truth è quindi l’outfit più casual di Daniel, non scevro da colpi di avanguardia geniale e provocatoria (l’album Do You Want New Wave or Do You Want the Soft Pink Truth? del 2004 era composto da cover di pezzi punk e hardcore degli anni ’80 in chiave electroclash), sicuramente quello in cui l’artista si pone più quesiti – ogni release ha un titolo che termina con un punto interrogativo: Is It Going to Get Any Deeper Than This? e Was It Ever Real? sono le due domande che si è posto lo scorso anno, la cui risposta è stata un’immersione totale nella disco music e nell’house, ovviamente rivisitate a suo modo.
Per gli amanti del synth pop consigliamo i Nation of Language, trio newyorchese che ha raccolto proseliti in seguito all’uscita di A Way Forward nel 2021, ma soprattutto grazie a un’estenuante e costante presenza dal vivo che li ha resi un’autentica macchina da live.
Per i fan del soul, invece, è tassativo non perdersi i Gabriels, band che ha stupito tutti allo scorso Glastonbury, soprattutto grazie alla particolare voce “falsettata” di Jacob Lusk, già concorrente di American Idol nel 2011, ma non lasciatevi ingannare: è il loro puro talento ad averli portati sui grandi palchi, e la loro personale visione e interpretazione di un genere che sembrava destinato al manierismo.
3 giugno
Il sabato primaverico è notoriamente per stomaci forti: grandi chiusure, grandi nomi – un gran finale come si deve. Se gli headliner fanno pensare a una giornata più votata al pop e al mainstream sfrenato, vi ricrederete assistendo alle performance delle band riportate in seguito.
Partiamo con una novità assoluta, nel senso che di loro sappiamo poco o nulla, e circola solamente un singolo: The Drift Institute, duo franco-svizzero che definire in un solo genere è un bel dilemma; nella nichilista Reality Sucks si percepiscono echi del clubbing si, ma anche del Bristol Sound e della darkwave. La commistione tra dub, psichedelia e altre sonorità psicotrope del polistrumentista Theo Muller ben si sposano con le linee vocali sussurrate della vocalist NVST.
Bar Italia è un altro nome molto interessante, attivo da qualche anno ma che agisce (volontariamente?) sotto i radar, senza dare troppe coordinate o informazioni sui membri che ne fanno parte; si vocifera (e forse inizia a diventare sempre più chiaro dalla molteplicità delle fonti che confermano questa teoria) che il deus ex di questo progetto sia Dean Blunt. Ipotesi non troppo campata in aria, a giudicare dalle copertine postmoderniste in bassa risoluzione e al sound anch’esso lo-fi e post-qualcosa, sempre aggirandosi come uno spettro affamato tra le stanze di indie, shoegaze e varie avanguardie.
La vera ciliegina è la presenza dei Death Grips, di ritorno al PS dopo ben 6 anni dalla loro ultima, incendiaria apparizione: il trio di hip hop sperimentale proveniente da Sacramento non ha di certo bisogno di presentazioni, ma è comunque un’istituzione nell’avantgarde, tanto da giustificare la loro presenza in questa lista.
Il noise degli irlandesi Gilla Band sarà una delle cose più particolari in cui potrete imbattervi al festival: farete molta fatica a trovare altra gente che esplora le possibilità degli strumenti (con consistente aiuto dato da effetti e pedali) come fanno loro – ascoltare Most Normal per credere: scolpire il rumore non è mai stato così intrigante.


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