Dall’idea all’album: Cristiano Godano racconta come è nato il corso di songwriting
#04Marzo #Articoli
Contenuto originale di SENTIREASCOLTARE
Dall’idea all’album è il titolo di un corso dedicato al songwriting con docenti di eccezione quali Leonardo Colombati e Massimo Cotto (giornalisti e scrittori), lo scrittore Premio Strega Sandro Veronesi, Mauro Ermanno Giovanardi e, soprattutto, Cristiano Godano. Le lezioni inizieranno il 7 marzo con cadenza settimanale alla Molly Bloom, l’Accademia di scrittura creativa con sede a Roma. Considerato quanto in questi anni le prassi di ascolto e produzione stiano cambiando il senso stesso della canzone, ci è sembrato interessante esplorare i motivi e gli obiettivi dell’iniziativa. Abbiamo quindi contattato il frontman dei Marlene Kuntz che ha accettato di rispondere a qualche domanda sul tema, con licenza di andare a parare (inevitabilmente) altrove.
Partirei dal titolo: “Dall’Idea all’Album”. Mi sembra contenere già una presa di posizione, una provenienza dell’album in termini di sostanza che si fa forma. Mi piacerebbe sapere se l’idea – appunto – di organizzare il corso nasce da qui, o comunque come è nata, quando, a chi è venuta
No, l’idea di fare il corso nasce da una esigenza di Leonardo Colombati, che chiacchierando del più e del meno mi disse dell’intenzione di inserire fra i vari corsi dell’Accademia Molly Bloom anche quello di scrittura creativa per testi di canzone. Ci guardammo e io gli feci capire con una inequivocabile espressione del viso che non mi sarebbe dispiaciuto per nulla. Lui colse la mia potenziale disponibilità e con entusiasmo mi comunicò di volermi affidare il corso. Il titolo venne fuori dopo.
Dieci incontri dei quali cinque tenuti da te (uno assieme a Mauro Ermanno Giovanardi), mentre negli altri si alternano Massimo Cotto, Sandro Veronesi e Leonardo Colombati. I tuoi sono “laboratori” e non lezioni: l’idea, l’immaginario, la scrittura e la canzone. Anche qui è evidente un percorso, un approssimarsi al cuore della cosa. Vuoi parlarne?
In realtà ogni lezione sarà in parte teorica e in parte laboratoriale. Gli step che hai sottolineato sono parsi a me e Leonardo (che è uno scrittore esperto) i doverosi passaggi attraverso i quali si arriva al concepimento di un testo. “L’idea” ha molto a che fare col foglio bianco sotto agli occhi e la penna sollevata in aria che attende di farsi scrittura: immagine risaputa che ben rappresenta lo scrittore che si prepara a favorire e accogliere l’ispirazione. “L’immaginario” è il serbatoio nel quale attingere ciò di cui si immaginerà poco per volta “di voler parlare” (metto le virgolette perché non sempre in un testo si vuol parlare di qualcosa, o quanto meno non sempre si ha la sensazione di voler realmente parlare di qualcosa: a volte si vuole esprimere uno stato d’animo, un’emozione, una suggestione, e si rimane concentrati sul definirla al meglio, senza voler entrare in una dimensione narrativa). “La scrittura” è il momento in cui le parole cominciano a riempire i versi, e inizia la fase creativa a tutti gli effetti, fatta di tantissime correzioni, pensamenti, ripensamenti, e scelte definitive. “La canzone” è il passaggio con cui si mette alla prova ciò che uno ha scritto: lo si canta e lo si incomincia a interpretare.
Penso proprio di si.
Non ti nascondo la curiosità per il live finale: come dobbiamo interpretare quel “Godano & Band”?
In realtà non è ancora certo che ciò avverrà. Se tanto mi dà tanto questa cosa ti sta procurando una leggera delusione.
Hai percepito diffidenza rispetto a questo tipo di iniziative, un po’ come esiste – più o meno manifesta, più o meno specifica del nostro Paese – nei confronti di corsi o scuole di scrittura?
Ammetto di aver sempre nutrito una leggera diffidenza nei riguardi dei corsi di scrittura. Ma ora ho 56 anni, e, forse, vedo le cose in modo diverso. Non credo proprio in ogni caso che mi porrò come uno che trasmette la certezza di saper guidare chi lo ascolta verso la realizzazione di un testo di valore. Io punterò molto su tutto ciò che so in merito allo scrivere in versi in linea generale: cosa comporta, quali limiti esige, quale rigore, quale precisione, e quali libertà concede (poche). Ognuno potrà poi, più che altro, ricavarne spunti (spero ottimi) per poter indirizzare il proprio talento verso solo lui saprà dove, senza che le mie parole lo possano distrarre più di tanto. In questo senso credo che un corso di scrittura creativa possa ritenersi prezioso a priori.
Ipotizzo una eventuale critica: la canzone oggi vive dinamiche produttive, modalità di distribuzione e prassi di riproduzione non paragonabili rispetto all’epoca pre-web, ma i docenti del corso hanno età e curriculum che li colloca più in area analogica che non digitale. Eppure, credo, proprio questo potrebbe rappresentare un valore aggiunto. Che ne dici?
Che la critica avrebbe sicuramente senso. Più che critica però parlerei di obiezione, che troverei ancora più ragionevole. Sarò io stesso a dire ai ragazzi (o ai signori e alle signore, chissà… magari più analogici di me) che da me non otterranno nessuna istruzione per il successo: non l’ho mai raggiunto io, non vedo come potrei insegnarlo a loro, a maggior ragione al giorno d’oggi, dove la musica è cambiata e non certo in meglio (non è sciocca falsa modestia la mia: i Marlene non sono una band di successo mainstream. È un fatto. E se non sei mainstream di questi tempi, soprattutto in Italia, sei piuttosto confinato…). Ma, continuerei, da me otterranno insegnamenti validi per immagazzinare una consapevolezza artistica dignitosa, comprendendo che il portarsi a casa un valore aggiunto artistico è una gran bella cosa.
Credo che l’omogeneizzazione di cui parli e di cui parla l’articolo abbiano molto a che fare con quel che penso dei tempi in cui ci ritroviamo, e che ho espresso fra le righe nella risposta precedente: internet sta distruggendo un mondo, e tutto ciò di cui gente come me, te e i lettori di questo spazio si è nutrita per tutta la vita è sempre più destinato (se le condizioni del mercato non cambieranno, e l’intelligenza artificiale promette in tal senso, semmai, una deriva verso il peggio) a essere un fattore di eroismo e di magnifico amore per qualcosa che è, in realtà, semplicemente gratis. Dico queste parole pensando al mio settore di pertinenza (la musica), ma credo possa riguardare anche gli altri settori da te nominati. Al netto degli eroi (che vien facile dire “sempre ci saranno”: io credo ci sia un sacco di ottima musica in giro, ma in quanti la intercettano veramente a parte i quattro gatti come i vostri lettori, o quelli di Ondarock, o quelli di chi vuoi? Per inciso: io faccio parte di questa tribù: vi leggo, leggo gli altri, italiani e inglesi, mi tengo informato, e a periodi alterni nutro la vostra stessa identica passione, forse con meno capacità e volontà di un tempo di ritenere le informazioni) al netto degli eroi, dicevo, la più parte degli attori in gioco vira verso la standardizzazione e la ricerca della cosa che fan tutti, nella speranza di riuscire a centrare l’obiettivo mainstream, l’unico che remunera. Le stesse piattaforme di cinema , mi vien da pensare, costringono alla omogeneizzazione: difficile pensare che colossi come Netflix o Amazon siano interessati a produrre contenuti di natura eminentemente artistica. Difficile pensare a film d’autore prodotti da loro… È ovviamente un discorso complesso, e qua sto disperatamente tentando una sintesi. Per rispondere alla tua domanda: credere nel proprio suono e nella propria poetica, per una band come la nostra non può altro che essere l’unica possibilità di esistere. Che questa cosa sia importante e necessaria per una band che si affacci oggigiorno sul panorama della musica odierna… beh, relativamente all’Italia avrei qualche remora nel trasmettere questo valore. Perché intuisco quasi per certo che con ogni probabilità è perdente in partenza. A meno di non sapersi coscienziosamente e aprioristicamente eroi: in quel caso vale tutto, anche la ricerca della “sintesi dell’inaudito”, qualsiasi cosa voglia dire. Ed è per questo che ritengo ci sia ottima musica in giro nel mondo: perché è pieno di eroi. Giovani e incoscienti, come è logico.
Karma Clima ha segnato un buon ritorno per i Marlene Kuntz, album numero undici in ormai oltre trent’anni di carriera. Siete nel bel mezzo di un tour, che è poi il momento in cui – per citare un amico – ci si rende davvero conto quale album si è fatto. Personalmente ci ho sentito molta motivazione, una specie di fiducia ritrovata nelle capacità del rock di fare la differenza. È davvero così? In generale: il rock può ancora fare la differenza oltre le cifre di vendita o di streaming?
Io posso solo dire che per chi ci segue i Marlene sono veramente importanti. Siamo seguiti e amati da persone che ci comprendono e ci conoscono alla perfezione, studiando ogni nostra composizione e entrando nei dettagli, dedicandoci tutta la pazienza che serve per apprezzare ogni nostro nuovo passo, sempre fatto all’insegna dell’impegno e della generosità artistica. Gente poco chiassosa, che non ama farsi notare nei social, ma che c’è, e ce lo viene a far capire dal vivo, con un entusiasmo e al contempo una compostezza davvero rimarchevoli. Se dobbiamo stare a ciò che dice il tuo amico, beh… i Marlene hanno fatto un disco estremamente importante: perché le date che stiamo facendo nei teatri, dove suoniamo tutto Karma Clima, fanno regolarmente erompere i presenti in applausi letteralmente interminabili intorno ai tre quarti del concerto (non alla fine dunque, quando ce lo si aspetta). È come una sorta di ringraziamento che sgorga inevitabile e spontaneo, quasi come se volessero ringraziarci per tutto quello che ci siamo interscambiati nel corso di questi 30 anni. Con queste prerogative appare inevitabile aver fiducia nella capacità del rock di fare la differenza. Una differenza emotiva, di amore e passione, che rinfranca nel suo essere linfa vitale. Sono anche consapevole di quanti invece, per contro, ci snobbano dandoci per morti da tempo: è un triste peccato, ma è così. In tal senso il rock (nella fattispecie quello che facciamo, anche se la tua domanda mira a essere generale) non riesce a fare la differenza, perché il pregiudizio è molto più duro di qualsiasi riprova. Sono convinto che i Marlene non lo meritino, ma fa parte del gioco.
Nel giugno 2020, appena trascorsa la prima ondata della pandemia, hai esordito da solista con l’ottimo Mi ero perso il cuore. Ho avuto la sensazione che una parte del Godano che avevamo solo intravisto nei Marlene avesse trovato la sua vera dimensione, quella di autore e interprete in bilico tra asprezza e ricercatezza, tra frattura e trasporto, tra fantasmi e prospettive. In chiusura di recensione mi chiedevo se andasse considerato l’inizio di qualcosa: mi sembra un’ottima occasione per chiedertelo direttamente.
Non lo so. Staremo a vedere. So per certo che sono particolarmente orgoglioso di quel disco, che rappresenta il completamento del Godano di cui parli. Ciò che Mi ero perso il cuore mette in scena è una parte di me che esiste da sempre, perché io amo certe cose da sempre. E se nominare Neil Young in fondo appare semplice e naturale, forse può servire sottolineare che negli anni 80 io non mi sono solo cibato di alternative-noise anglo-americana (dai Sonic Youth ai Fugazi, dagli Squirrel Bait agli Husker Du, dai Big Black ai Birthday Party, dai Gun Club ai Killing Joke, ai Thin White Rope, agli Swans, ai Butthole Surfers, ai Red Lorry Yellow Lorry, ai Christian Death eccetera eccetera eccetera, senza nominare molti australiani e molto, molto altro) ma anche di paisley underground, di cui i miei preferiti assoluti erano i Rain Parade (e quella magnifica compilation di culto a nome Rainy Day, che avrò ascoltato centinaia di volte, dove le chitarre acustiche suonano in quel modo che per me è sempre stato essenziale e vitale, e che poi ho ritrovato nei soliti Dylan–Cohen-eccetera quando ho scoperto a ritroso certi padri putativi… ), ovvero una certa propensione melodica che amo da sempre e che con i Marlene è stata fraintesa da certo pubblico. Mi ero perso il cuore è il disco che mi permette di affermare tutto ciò e di affrancarmi da un certo brusio di sottofondo.