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Il momento più bello dei dEUS. Intervista a Tom Barman

#18Febbraio  #Articoli 

Contenuto originale di SENTIREASCOLTARE
Un po’ di numeri: How To Replace It è l’ottavo album dei dEUS, arriva dopo dieci anni di silenzio su questo fronte – mentre i membri della band si sono dedicati ad altri progetti – e a ventotto dall’esordio del gruppo indie belga più famoso. Mettendo da parte la matematica, eccoci qui a parlare con il pirotecnico Tom Barman del nuovo disco della sua band, che si conferma a suo agio tra frammenti art rock, fiammate al limite del noise, orchestrazioni e quella spolverata di pop così difficile da far bene.
Following Sea, di cui apprezzavamo in queste pagine “la sua dichiarata vena interlocutoria”, è uscito nel 2012, un’era fa: l’esordio degli Alt-j, Good Kid, M.A.A.D City di Lamar, Lonerism, il naufrago della Concordia – finito in un testo di Barman -, le Olimpiadi londinesi, il record di Felix Baumgartner. Normale, quindi, chiedere al perno dei dEUS cos’è successo in questi dieci anni. La risposta, annunciata con una bella apertura di braccia, non si fa attendere: “La vita! Volevo uscire dalla routine del ‘registra, fai promozione, giri in tour, comincia a scrivere’. Cioè, è bellissimo, è il lavoro dei sogni, se si può usare il termine ‘lavoro’. Ma ti logora. Quindi ho dato la precedenza alla famiglia e a un modo di lavorare diverso, perché nella mia band jazz Taxi Wars le cose si fanno in piccolo”.
Dopo tutti questi anni avevamo bisogno di avere un’unica influenza, noi stessi
Eppure, questo decennio in cui, secondo Barman, il tempo è volato in maniera impressionante, si sente tutto in How To Replace It. In particolare, nel suo essere così caleidoscopico. Tanto che ascoltare i primi cinque brani è come sentire una radio che cambia di stazione in stazione, di atmosfera in atmosfera. In fondo, però, questo non è altro che uno dei segreti dei dEUS, infatti Tom ragiona a voce alta: “Dopo tutti questi anni avevamo bisogno di avere un’unica influenza, noi stessi. Abbiamo quindi abbracciato principalmente il calore e il classicismo di Bruno (De Groote, dSA), ci siamo adattati a questa parte di noi”.
Non solo, il nuovo disco dei dEUS rappresenta anche una sterzata verso un sound più ossidato, come specifica Barman: “Abbiamo registrato gli ultimi due album con David Bottrill, che è un produttore eccezionale ma un perfezionista al limite dell’ossessione. Questa volta abbiamo fatto la scelta opposta, lasciando spazio a chitarre rumorose. Per esempio, alcune tracce vocali ce le siamo portate direttamente dalle demo! Ho detto ad Adam Noble di fare spazio alla nostra sporcizia”.
Un’assenza di lindore che è sinonimo di onestà e si riversa anche sui testi: non astratti, non “pensati troppo”, ma sinceri, come quello di Love Breaks Down, in cui sembra quasi di vedere il cantante straziato e disteso in penombra su di un mare di tappeti (Tom, aspetto il credit che mi hai promesso per il video).
Ho detto al produttore Adam Noble di fare spazio alla nostra sporcizia
Per questa chiacchierata sono andato a spulciare un po’ di vecchie interviste. Ce n’è una sul Guardian che risale al luglio 2012 in cui Barman si diceva stufo di cantare di se stesso. Viene naturale chiedergli se è ancora così e lui, ridendo, risponde: “È per questo motivo che in dieci anni non ho fatto un disco con i dEUS! Adesso sono in pace come me stesso, quindi è il momento in cui sento di poterlo fare rimanendo credibile. È quello che Bowie e Dylan hanno cominciato a fare nell’ultima parte della loro carriera”. L’artista e regista belga si perde, poi, in un lungo ragionamento sull’importanza degli errori, su come il tempo mitiga la paura di sbagliare e su quanto sia vera la frase di Beckett: “Fallisci ancora. Fallisci meglio”.
I dEUS sono stati la prima indie band belga a firmare per una grande casa discografia, ma sono rimasti fedeli alle loro origini. Per esempio, continuano la tradizione di chiamare ad aprire i loro concerti ad artisti conterranei. Da grande ascoltatore di musica qual è Barman, colgo l’occasione per chiedergli un po’ di nomi da segnare. Il primo è quello di Sylvie Kreusch, che ha collaborato nel disco dei dEUS, che ha “bellissime melodie, canta bene, è giovane e farà sicuramente strada”. E, poi, i consigli si spostano su Haunted Youth, Brutus, Whispering Sons. Insomma, “il livello è ancora buono, la scena continua a germogliare”.
Prima di congedarci, la chiacchierata verte sulla questione del pop. Su quanto sia erroneamente uno spauracchio per i puristi dell’indie e quanto sia difficile fare del buon pop. Fa capolino, ovviamente, Burt Bacharach e il suo splendido insegnamento: “La melodia è una linea. Non è difficile trovarla, è più complicato mettere assieme tutti i punti che la compongono, farla muovere e riuscire a commuovere”. Ma il sunto di questa intervista sta in una sintesi che viene naturale, ovvero che le canzoni devono essere talmente intelligenti da sembrare innocue, talmente pop da essere sofisticate.
Barman annuisce e si dice d’accordo, in fondo è lui quello che in One Advice, Space canta della capacità delle canzoni di attraversarti e portarti in luoghi diversi. In attesa di vederlo con i dEUS in Italia, mi lascia con quello che definisce il più bel momento della sua vita – e di quella del suo gruppo: “Ero nel Sud della Francia e a un certo punto vedo passare un’auto con i finestrini abbassati. Stavano ascoltando la nostra musica. In fin dei conti, è tutto quello che chi fa musica ha sempre desiderato”.


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