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Phil Selway. Il disco anglo-italiano, i Radiohead …e il velluto. Intervista al batterista britannico

#08Febbraio  #Articoli 

Contenuto originale di SENTIREASCOLTARE
“Il segreto della felicità non è nel possesso delle cose, ma nel godimento che se ne trae”, lo diceva Eugène Delacroix, il pittore francese che aleggia nella chiacchierata con Philip Selway. La frase sembra perfetta per descrivere il periodo che sta vivendo il batterista dei Radiohead. Selway, che negli anni ha consolidato la sua carriera solista, sprizza contentezza, si dice appagato della sua vita artistica e di quella personale. Insomma, con un gioco di parole servito su di un piatto d’argento: incarna a pieno il discorso del ogni cosa al suo posto.
Ma andiamo con ordine. Strange Dance è il terzo album del cinquantacinquenne nato a Abingdon-on-Thames, che ha esordito nel 2010 con Familial, un abbozzo di una carezza. Quattro anni più tardi è arrivato Weatherhouse, un vero e proprio abbraccio, ed eccoci, ora, al suo disco più completo e organico. Qui entra in gioco Delacroix e le sue esplosioni di colore, suggestione che Selway coglie al balzo: “La trovo perfetta come descrizione. Credo sia dovuta principalmente alla natura collaborativa di Strange Dance“.
Il carattere collettivo dell’album suggerisce al batterista l’uso di “anglo-italiano” per definire Strange Dance. Infatti, alle percussioni troviamo Valentina Magaletti e, nei panni di produttrice, Marta Salogni. Completano il quadro Hannah Peel, Adrian Utley, Quinta e Laura Moody. Ma, a dispetto di questo folto elenco, la musica di Selway è profondamente intimista, malinconica, e, allo stesso tempo, capace di infondere un tepore di speranza, come spiega il diretto interessato: “Credo abbia a che fare con i forti contrasti che sperimentiamo ogni giorno, sia quelli esterni, sia quelli che si evolvono all’interno del nostro carattere. Ho capito, in particolare con quest’ultimo disco, che cerco di traghettarmi sempre verso l’ottimismo. È una sorta di inclinazione”.
A proposito di questo ottimismo, gli ricordo una clip in cui Thom Yorke non riesce a ringraziare i lettori di una rivista specializzata per aver scelto Ok Computer come miglior album del 1997, interrompendo il suo discorsetto con una frase del tipo: “Fanculo, odio queste cose”. Selway, dietro di lui, non si scompone e, sorridendo, corre ai ripari: “Era buona”. Il batterista ride di gusto e commenta, a distanza di ben ventisei anni: “È quello che intendevo. Era un periodo molto teso e lì per lì non mi definivo assolutamente ‘ottimista’. Ma la vita è un continuo scavare e, spesso, alcune cose emergono quando meno te l’aspetti”.
Un’altra inclinazione di Selway riguarda il cinema. Nel 2017 ha curato la colonna sonora di Let Me Go, una pellicola diretta da Polly Steele con, tra le altre, Juliet Stevenson, Jodhi May, Eva Maygar ed Elizabeth Webster, che racconta la storia di quattro generazioni di donne alle prese con i traumi causati dalla Seconda guerra mondiale. L’esperienza è rimasta nel DNA del batterista che nel finale del brano di apertura Little Things si lascia andare a un’esplosione orchestrale drammatica e cromatica.
Ma Strange Dance è un collage di sensazioni, al suo interno convive la cascata sonora di Check For Signs Of Life, di cui Selway adora il sound e i fiati, il gusto vintage di What Keeps You Awake At Night, l’ipnotica title track a cui il batterista confessa di aver lavorato per vent’anni. La cosa più interessante degli album solisti di Selway è che non suonano come quelli della sua band, una prassi che abbiamo ascoltato sin troppe volte – mi limito a due casi, andando a memoria, ovvero i lavori solisti di gran parte dei membri di Arcade Fire e Bombay Bicycle Club, seppur con qualche eccezione.
Il batterista mi confida che all’inizio era una vera e propria esigenza, quella di allontanarsi dai Radiohead il più possibile. Poi, il processo è diventato piuttosto naturale, fino a Strange Dance, dove non ci ha nemmeno pensato e, forse, è per questo che in qualche punto Make It Go Away ricorda vagamente l’atmosfera di High And Dry. Ad ogni modo, ci abbiamo girato attorno per troppo tempo, quindi è arrivato il momento di parlare della sua band.
Quando a gennaio la notizia che i Radiohead si sarebbero rivisti per lavorare su materiale inedito ha fatto il giro del mondo, è stato proprio un virgolettato di Selway a scatenare il rincorrersi di voci. Gli chiedo, quindi, come ci si sente a creare un trambusto del genere con qualche parola e un’affermazione piuttosto vaga. Esce di scena il cantautore solista ed guadagna il palco un quinto di una band che ha venduto più di trenta milioni di album: “È una sensazione bellissima. Far parte dei Radiohead è un sogno che avevo da quando ero adolescente, intendo dire che non volevo far parte di un gruppo qualsiasi, ma un gruppo come i Radiohead. Persone che sono concordi nello spostare l’asticella un po’ più in là, che si sentono a disagio nel sentirsi a proprio agio. Quando ci sono persone in tutto il mondo così interessate a quello che fai non puoi che sentirti grato di tutto ciò”.
Selway racconta di come il suo linguaggio da batterista si sia evoluto nel tempo, paragonandolo al tentativo di trovare la sua voce nei lavori solisti. Gli confesso che, secondo me, in entrambi i campi sembra muoversi sul velluto, facendo l’esempio del suo primo singolo By Some Miracle e il drumming di Bodysnatchers, una fiammata di In Rainbows. Il diretto interessato annuisce: “Sarà perché adoro il velluto! Credo sia la mia natura che, col passare del tempo, è emersa. Sin dall’inizio ero convinto che la mia carriera solista sarebbe stata diversa da quanto fatto con i Radiohead, è stato un processo di strutturazione. Sul drumming è successa la stessa cosa, Bodysnatchers è divertentissima da suonare, ma è grazie all’evoluzione del mio linguaggio che lì non ci sono forzature e non ci sono stati nemmeno dubbi legati a quanto fatto in passato per sottrazione, come in Kid A“.
In questo scorribandare nel tempo, chiedo a Selway anche com’è stato far da ambasciatore alla Independent Venue Week, tenutasi nel Regno Unito dal 30 gennaio al 5 febbraio di quest’anno: “Importantissimo, per varie ragioni. Oltre ad aver esordito live con i brani del mio disco, è proprio nei piccoli locali che i Radiohead sono nati e si sono consolidati. Se siamo ancora qui a fare tour mondiali e leggere di concerti entrati nella memoria di tante persone è proprio grazie a quei locali alimentati da tanta passione e sormontati da problemi di sostenibilità. I piccoli locali sono l’ossatura delle scene musicali in tutto il mondo e, dopo un periodo così drammatico come quello pandemico, è arrivato il momento di fare di tutto per spingere nuovamente le persone a frequentare assiduamente i posti dove si fa la musica dal vivo”.
Quando la chiacchierata volge al termine arriva il momento tornare sulla band di A Moon Shaped Pool, uscito ormai sette anni fa. Ok, sappiamo che i Radiohead si sarebbero visti con il nuovo anno e – per chi fosse interessato c’è il nostro monografico – conosciamo ormai bene le dinamiche che stanno dietro a ogni nuovo album del quintetto oxoniense, ma non chiedere a Selway novità sarebbe imperdonabile. Il suo “certo, ci stiamo vedendo molto spesso!” con un ghigno illuminante vale più di mille parole.


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